ABHYASA – VAIRAGYA i pilastri della pratica
Lo hatha yoga, così come ogni attività fisica, agisce sul corpo allo scopo di preservare lo stato di salute. Il termine salute indica uno stato di benessere fisico, mentale ed emozionale. Pertanto la salute dell’intero organismo non può avere luogo se non investe uno stato di benessere anche a livello mentale.
Uno dei problemi più comuni oggi è la mancanza di stabilità emozionale, sottoposti a continue forti emozioni, spesso non si ha la capacità di elaborarle per poi liberarcene.
lo yoga a differenza di ogni altra disciplina svolge un’azione sia sul piano fisico che su quello emotivo e mentale.
Moltissime persone spesso lamentano disturbi fisici, molti dei quali hanno origine mentale, queste malattie sono chiamate ” psicosomatiche” ( psico = mente, soma = corpo). La soluzione di questi disturbi può essere ottenuta, solo agendo su entrambi gli aspetti, quello fisico e quello psichico. In questo lo yoga non ha eguali.
E’ opportuno quindi rivolgersi allo yoga alla ricerca della soluzione a problemi fisici o psichici che siano, alla condizione però, che la pratica comporti da parte del praticante un corretto atteggiamento mentale. E’ consueto da parte di alcune persone, frequentare lezioni di yoga con un’attitudine che possiamo definire ” passiva “, pensano dentro se stesse: “sono qui, ho fatto lo sforzo di venire, ora fai tu”, rivolti allo yoga o all’insegnante . Lo stesso atteggiamento che si ha quando assumiamo una medicina, ci rendiamo disponibili all’assunzione della medicina, la ingeriamo e attendiamo passivamente che faccia effetto, che risolva il nostro problema. Questa attitudine non è funzionale nella pratica yoga.
I maestri ci indicano la strada, ci sostengono, ma dobbiamo essere noi a percorrere il cammino, anche se in salita, attraverso il nostro sforzo, la nostra convinzione.
A questo proposito i grandi maestri del passato ci sostengono affermando che avremo possibilità di successo solo attraverso l’esercizio costante e ininterrotto, questo esercizio costante e ininterrotto viene chiamato ” Sadhana”
Il termine Sadhana è una parola sanscrita (antica lingua indiana) che significa “Pratica” , un significato di movimento da un posto ad un’altro. E’ il titolo del II° capitolo del libro
” Yoga sutra di Patanjali”, un testo centrale per gli studiosi di yoga, in questo capitolo Patanjali delinea alcune idee pratiche fondamentali. Per il movimento del praticante verso il fine dello yoga: uno stato di liberazione dove la mente è stabile e capace di vedere chiaro.
Sadhana è perciò, il senso del movimento da dove siamo ora a un nuovo luogo di comprensione e realizzazione. Essa richiede sforzo e intenzione. Qualunque pratica o azione, affrontata con la giusta intenzione e attitudine, può essere considerata sadhana.
Tuttavia il muoversi da un posto ad un’altro è spesso complicato o può non essere una strada agevole. I tentativi di un piccolo bambino di portare un cucchiaio di cibo nella sua bocca, spesso si conclude con una faccia sporca, perché il cucchiaio tocca l’orecchio o la fronte. Spesso quando compiamo dei movimenti, essi sono accompagnati anche da movimenti extra, non volontari (spesso inconsci). Nelle scuole di lavoro corporeo e consapevolezza questi movimenti sono chiamati movimenti parassitici. Essi alimentano le intenzioni di muoversi in un’unica direzione e rendono quel semplice movimento più complesso.
Per un bimbo questi movimenti parassitici rendono il tragitto verso la bocca imprevedibile, e parte dello sviluppo è appreso dal lasciare perdere quei movimenti che sono inutili e controproducenti.
Anche per un praticante yoga, pratica significa abilità di avanzare e anche abilità di lasciare andare il superfluo. naturalmente in ciò è necessaria un’accurata considerazione ed anche, forte intenzione.
Cosa dobbiamo mantenere (conservare) e cosa dobbiamo lasciar perdere?
Nel Y.S. II-47, Patanjali, indica che una delle vie più importanti per realizzare un equilibrio nelle asana (posizioni) è il conscio, speciale sforzo per rilassarsi. Sebbene possa sembrare paradossale, il conscio sforzo per rilassarsi e lasciar andare, è un requisito specifico della pratica yoga. Questo requisito di lasciare andare è particolarmente difficile quando si è stressati o ansiosi. Poiché è esattamente in quei momenti che spesso ci aggrappiamo più tenacemente.
La trappola per catturare le scimmie funziona su questo principio, un guscio di noce di cocco viene legato e riempito di cereali attraverso un piccolo foro abbastanza grande per la zampa della scimmia, ma non abbastanza grande da far passare il pugno della scimmia pieno di cereali. La scimmia sentendosi intrappolata, una volta riempito la zampa non può far uscire il pugno chiuso, si agita di più stringendo più vigorosamente la presa, e più la stringe più e intrappolata.
Proprio il lasciare andare è il percorso per liberarsi, ma è l’opposto di ciò che spesso accade. Il lasciare andare richiede l’abilità di pensare in modo chiaro, distinguere ( come e quando lasciare andare) oltre la fiducia. Fiducia, perché a volte la nostra tendenza è aggrappasi sempre più strettamente, con per il timore di perdere qualcosa. Patanjali descrive i due pilastri della Sadhana(pratica), ABHYASA e VAIRAGYA: Abhyasa è esercizio costante e ininterrotto, Vairagya è lasciare andare, distaccarsi.
Lo yoga praticato costantemente ci conduce al distacco dalle cose superflue e avremo più sete di esperienze. Grazie a questo stato di vairagya siamo in grado di vedere chiaramente, le nostre lenti non sono più colorate.
Pertanto chiunque si avvicini alla pratica yoga, principiante o avanzato che sia, deve essere consapevole che senza Abhyasa e Vairagya non è possibile ottenere lo stato di benessere psico-fisico che lo yoga indica come obbiettivo.
BUONA PRATICA
HARE OM